Quando ripenso alla settimana Santa, non posso fare a meno di pensare a quanto questa particolare festività religiosa si lega alle nostre biografie, più di quanto noi stessi riusciamo ad immaginare; durante gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza questa rappresentava l’ultima occasione per noi, studenti eternamente irrequieti, di godere di qualche giorno ininterrotto di vacanze e di vedere la settimana di ritorno in classe più corta di un giorno.
Crescendo, però, le cose hanno cominciato a prendere un’altra piega: non ci sono più giorni di festa da inseguire e nemmeno regali da ricevere. Allora cosa resta di questi giorni? In queste occasioni cominciamo ad osservare, con maggiore attenzione, la realtà circostante e ci ritroviamo immersi in una miriade di rituali e tradizioni religiose che vengono inscenate nel corso di questi giorni.
Non è esente da questa condizione nemmeno la realtà cittadina da cui provengo, Atripalda. C’è, difatti, un rituale che prende vita ogni venerdì Santo e che attira un gran numero di fedeli e curiosi, è questo il caso della via Crucis. Questa particolare rappresentazione ha avuto un peso sempre maggiore nel corso degli anni, partendo dal 1997. Ma non è della via Crucis che viene messa in scena che voglio parlarvi. Questa, che ci crediate o no, affonda le radici in una rappresentazione altra del XIX secolo e che vale la pena di essere approfondito. Il nome con cui è conosciuto questo particolare rituale è il “Rito dell’Incappucciato” o la “Devozione dell’Incappucciato”.
Una storia di famiglia
La storia di questo rito ebbe inizio nell’attuale centro storico cittadino, presso Capo La Torre, quando nel 1880 un pescatore di fiume, Pellegrino Giovino, decise di assolvere ad un voto fatto inseguito alla caduta di un suo figlio. Le memorie familiari rievocano l’iniziale percorso che Pellegrino intraprese e che si concluse presso la collina cittadina di San Pasquale, dove lo stesso mise in scena le tre cadute di Cristo. Grazie ad Enrico, uno sei suoi diretti discendenti, abbiamo ricostruito anche gli elementi tipici che venivano portati in processione.
Inizialmente il rito era estremamente scarno e spoglio. Pellegrino Giovino indossava una tunica bianca e un cappuccio (probabile rimando ai riti religiosi della penisola sorrentina) e portava in spalla la croce. L’estrema essenzialità del rito voleva rappresentare un invito all’identificazione collettiva. In quel momento non era Pellegrino Giovino a portare la croce, ma era un’intera comunità che simbolicamente indossava i panni dell’Incappucciato e che, come Simone di Cirene, aiutava Cristo per un ampio tratto della via Crucis. Per più di 100 anni questa particolare processione è stata inscenata e a reggere il peso della croce si sono trovati gli eredi maschi di quel primo pescatore del vecchio centro popolare, che di anno in anno si sono susseguiti, ereditando la tradizione e al tempo stesso arricchendola con alcuni elementi.
Infatti, all’iniziale tunica del 1880 e che, come ci ha raccontato Enrico, è resistita fino ai giorni nostri, sono state aggiunte le scale, il gallo, la tromba. Elementi di una simbologia non totalmente certa, che però ci permette di individuare dei richiami all’ultima cena e agli ultimi istanti di vita di Cristo. Particolarmente curiose sono le storie che Enrico ci ha raccontato per quanto riguarda il gallo e il cappuccio: il primo è stato cambiato in seguito al terremoto e ha sostituito il precedente, il cui valore era senz’altro diverso. Come ha avuto modo di raccontare Enrico, il precedente era stato impreziosito da alcuni accessori che erano stati comprati grazie alla devozione della comunità emigrata degli Stati Uniti durante i decenni successivi al conflitto mondiale. Purtroppo, lo stesso nel corso delle varie epoche è andato perduto. Il secondo elemento, come già detto in precedenza, non è risalente al 1880 come la tunica, ma è più recente e risale agli anni ’60 del secolo scorso. Questo, infatti, in seguito all’usura del precedente, fu donato da una famiglia atripaldese che dopo averlo commissionato lo portò al santuario di Pompei dove fu custodito per un’intera settimana. Un altro dettaglio estremamente importante è legato alla vestizione e alla preparazione dell’Incappucciato che nel corso del venerdì Santo viene svolta dall’erede femmina della famiglia.
Diventati adulti ci accorgiamo di come le nostre vite siano interamente calate nelle comunità in cui ci ritroviamo a vivere e come in esse siano calati alcuni rituali collettivi capaci di assumere, col tempo, un peso particolare sempre diverso e sempre in relazione alle nostre esistenze. Così, dopo due anni di estreme privazioni e limitazioni, di riti collettivi mancati, la venuta del venerdì Santo è stata accolta in città come un momento solenne degno di essere vissuto. Si è aggiunto un nuovo tassello ad una tradizione che gioca con le vite e le memorie e che nel corso degli anni si trasformano.
Si ringraziano Enrico e Iolanda Giovino per l’aiuto e la disponibilità.
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